Per una psicoterapia senza ricetta
Al giorno d’oggi la psicologia sta diventando una delle discipline sempre più presa di mira dal marketing.
Sul mercato abbondano manuali sulle ultimissime tecniche, rigorosamente evidence-based, per affrontare i vari quadri sintomatologici in ottica parcellizzante, alla stregua di pillole che promettono miracoli e, soprattutto, una ripresa ottimale dell’individuo che, per produrre, deve sbarazzarsi di qualsiasi forma di disagio. Soffri di attacchi di panico? Eccoti questa pillola, in 10 incontri sarai come nuov*. Hai avuto un “trauma”? Eccotene un’altra. Sei emotivamente disregolat*? È presto detto: questo programma varrà come la tua alfabetizzazione emotiva.
Si ragiona per compartimenti stagni al fine di adattare l’essere umano ad una società sempre più veloce, competitiva, che lascia fuori dalla porta qualsiasi aspetto di umanità, vissuta come fastidiosa defiance, vergognoso difetto, imperdonabile debolezza.
In questo moto vorticoso che risucchia tutti nella cecità, forse è utile, per noi psicologi/psicoterapeuti e tutti coloro che in varie forme si occupano di sofferenza, recuperare una domanda che si pone come un faro nel nostro pensare e agire clinico: come si sta vicini ad una persona che soffre? Qual è il nostro ruolo? Quale finalità ci poniamo? Che senso diamo al nostro essere lì, assieme a qualcuno che non conosciamo, ma che in qualche modo sentiamo che ci somiglia?
Ci somiglia nella misura in cui siamo entrambi coinvolti nelle stesse questioni esistenziali, quelle di fondo intendo (il tempo, l’amore, la morte…), ugualmente in affanno per trovare il bandolo della matassa e rimanere in equilibrio, talvolta in crisi perché, si sa, non possono esistere vite con l’ “happily ever after” incorporato. Abitare i nostri panni in modo consistente ha un prezzo. Ossia porci domande, stare scomodi in ciò che andiamo scoprendo di noi, soffrire, perché arrivare al nocciolo quasi mai ci piace, vederci e stare con quello che vediamo. Reggere.
Ecco, credo che in questo reggere stia tutta la qualità del lavoro psicoterapeutico: non tanto negli strumenti, nelle tecniche, nei manuali standardizzati e, a mio avviso, spesso sterili. Ma nell’essere disposti a so-stare con l’altro (che poi è un so-stare in primis con se stessi) e passare attraverso quelle vicende umane che sono familiari a ciascuno di noi. È non avere risposte, a volte, ma porsi assieme all’altro domande che, come sassolini lanciati a pelo d’acqua, si riverberano in un processo generativo che porta, in ultima istanza, a fare i conti con sé. Noi siamo lì, a latere di questo processo, testimoni onorati di accompagnare i soggetti nella tortuosità della vita, incuriositi verso le luci e le ombre, le contraddizioni e le ambivalenze, gli stalli e le accelerazioni, a coltivare fiducia e speranza, e a fare il tifo per le potenzialità di ognuno di farcela.